
Alentejo, Portogallo: l’olivicoltura superintensiva sta distruggendo il paesaggio e l’equilibrio ecologico
Gli abitanti dell’Alentejo lanciano un grido d’allarme: ciò che sta accadendo nella loro terra ha il sapore di un vero e proprio ecocidio. L’espansione incontrollata della monocoltura di olivo in impianti superintensivi sta trasformando radicalmente il territorio, cancellando non solo la biodiversità, ma anche la memoria storica e paesaggistica di una delle regioni più suggestive del Portogallo. Il cuore del problema è l’uso intensivo e privatizzato del bacino di Alqueva, il più grande lago artificiale dell’Europa occidentale, oggi sfruttato quasi esclusivamente dai grandi gruppi industriali dell’agroalimentare.
La monocoltura che cancella la natura
Negli ultimi dieci anni, la campagna dell’Alentejo è stata progressivamente colonizzata da impianti superintensivi di olivi, con conseguenze devastanti: la perdita della varietà agricola locale, la scomparsa del paesaggio tradizionale e l’omologazione del prodotto. Questa industrializzazione spinta della terra ha anche un volto invisibile ma drammatico: oltre il 70% delle terre agricole è ormai in mano a investitori stranieri, interessati più al profitto che alla sostenibilità. Ne risulta un’agricoltura che impoverisce l’ecosistema, compromette le risorse naturali e contribuisce al degrado climatico.
Un oliveto superintensivo prevede fino a 2.500 piante per ettaro, una densità incompatibile con l’equilibrio ecologico del territorio. Per far spazio a queste coltivazioni meccanizzate, ogni forma di vegetazione preesistente viene rimossa, cancellando habitat cruciali per uccelli, insetti impollinatori e piccoli mammiferi. Il paesaggio si trasforma in distese monotone, dove la biodiversità è annientata e i suoli vengono sistematicamente impoveriti. A questo si aggiunge l’uso massiccio di fitofarmaci e fertilizzanti chimici, spesso spruzzati in prossimità di abitazioni e villaggi, con effetti preoccupanti sulla salute delle persone e sull’inquinamento delle falde acquifere. In una regione sempre più colpita dalla siccità e dagli eventi meteorologici estremi, tutto questo rappresenta un modello agricolo insostenibile e miope.
Il bacino artificiale di Alqueva, realizzato con fondi pubblici per incentivare lo sviluppo di una delle aree più povere e aride d’Europa, è oggi il motore idrico dell’agricoltura intensiva. Secondo Edia, l’ente di gestione, circa l’80% delle sue risorse idriche viene destinato all’irrigazione di mandorleti e uliveti industriali.
Sebbene ciò abbia generato profitti a breve termine per pochi grandi attori economici, i costi ambientali sono già visibili. Le siepi di ulivi si estendono a perdita d’occhio, sostituendo ogni traccia di paesaggio variegato.
A dispetto delle promesse, la diga non ha arginato lo spopolamento: tra il 2011 e il 2021, l’Alentejo ha perso 41.000 abitanti. E il futuro è ancora più incerto. Secondo uno studio della società Agrogés, il cambiamento climatico farà aumentare la richiesta di acqua per questi impianti dal 5% al 21%, mentre l’apporto idrico al bacino diminuirà dal 5% al 10% entro il 2050. Uno scenario preoccupante che mette a rischio la stessa sopravvivenza dell’ecosistema locale.
L’impatto ambientale di questi impianti non è solo teorico. A Ervidel, nel comune di Aljustrel, l’invasione di fango avvenuta nel gennaio 2025 ha reso evidente quanto siano fragili i nuovi equilibri del suolo. A seguito di forti piogge, un oliveto superintensivo piantato a meno di 20 metri dalle abitazioni ha provocato una colata di fango che ha travolto strade, case e cortili. Un disastro annunciato, favorito dalla mancanza di normative vincolanti che impongano distanze minime di sicurezza tra coltivazioni industriali e centri abitati. Le attuali “buone pratiche” restano facoltative, mentre la popolazione chiede regole chiare, controlli efficaci e una pianificazione agricola che metta al centro la salute delle persone e del pianeta.
La crisi dell’Alentejo è un monito per tutte le aree rurali europee. Serve una profonda revisione delle politiche agricole: non si può più incentivare un modello produttivo che consuma suolo, acqua e vite. Occorre invece promuovere un’agricoltura diversificata, rigenerativa e rispettosa dei cicli naturali. La tutela del paesaggio, della biodiversità e delle comunità locali non è un ostacolo allo sviluppo: è la sola strada possibile per costruire un futuro giusto e sostenibile per le generazioni a venire.
